Credo che sia stato in quei giorni, di quella stagione che non si può più chiamare estate, che tutto ha iniziato a franare. Già da prima di quel maledetto 20 luglio, a dire il vero, le nostre illusioni di "nativi democratici" sull'intangibilità di alcuni diritti (almeno ora e qui) davano segni di cedimento. Vedere la propria città blindata, trovarsi i lucchetti e le catene al portone, la toponomastica divisa in zone rosse, il rumore degli elicotteri, la follia mediatica che azzardava improbabili ipotesi di attacchi chimici o lanci di sacche di sangue infetto, offrivano l'idea che qualcosa di enorme stava per accadere.

E' un movimento rapido, abitudinario, ma rallentato in qualche modo dalla furtività, una fretta che impaccia.
Le mani, normalmente sicure e avvezze a quel gesto quotidiano, inciampano come incerte, perdendo secondi in realtà affatto preziosi. Eppure gli occhi si muovono repentinamente per verificare se l'attenzione dei compagni di avventura sia stata in qualche modo attirata su di sé.

Abbiamo bisogno di voci coraggiose di eroi comuni che si oppongano all'ingiustizia e alla repressione", questo è l'invito di Salil Shetty, Segretario Generale di Amnesty International in apertura dell'ultimo numero della rivista trimestrale della nota organizzazione umanitaria. Aggiungerei a questa accorata richiesta, oltre alle voci coraggiose, il bisogno di mani, altrettanto impavide.

La madre lo racconta benissimo. E la platea numerosa e attenta, ammutolisce, fino a trattenere quasi il respiro.
In quell’ultima fotografia scattata dal figlio pochi istanti prima di essere ucciso, il viso ritratto del suo amico, che seguirà la sua stessa atroce fine, non esprime paura ma preoccupazione, non ansia per sè stesso, per la morte evidentemente imminente, ma apprensione, quasi tenerezza per la sorte dell’amico che eroicamente continua fino alla fine a testimoniare la violenza e l’orrore di quei luoghi, come meglio sa fare, impugnando la macchina fotografica.

Sarebbe stata per certi versi una settimana fortunata. E' capitato infatti nei giorni scorsi, per una combinazione di buone stelle, di vedere i frutti di lunghe fatiche collettive e di preghiere più o meno laiche, ma decisamente efficaci e tempestive abbastanza per evitare, qualche volta, che le sventure iniziali degenerassero in danni irreparabili. 
Per chi si occupa, in qualsiasi forma, di violazioni di diritti umani la riparazione dei torti è fortuna rara e comunque spesso non completa: quasi sempre è inevitabile che le vittime non ne escano comunque indenni.

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