Resistere e salvare in terra e mare

Ne parlavo in questi giorni con amici visionari come me.

Straziati da racconti sentiti troppe volte, non ci diamo pace: “Sì muore come boccheggiando cercando un fiato d’aria, strappando alla vita ancora un respiro. Si muore annaspando in drammatica solitudine seppure qualcuno tenti, talvolta, un estremo soccorso. Sì muore lontani dagli affetti e senza neppure il conforto di una ricomposizione postuma o di una personale benedizione. Senza nessuno che ricordi le tappe e i valori di tutta quella vita che ha preceduto la morte.


Si perde il diritto al nome, all’identità. Sì viene ridotti a numeri nei telegiornali della sera o peggio a maldestre statistiche, truccate, comunque sempre per difetto. Perché chi ascolta si abitui e anestetizzi qualunque impulso all'indignazione o alla simpatia.

I familiari vengono scippati del diritto ad un funerale. Viene sottratta la pietas di un rito di accompagnamento. A volte non hanno notizie per giorni e si tormentano nell’angoscia di non sapere che sorte è capitata ai loro cari.

Si muore, nonostante gli sforzi, senza salvezza.

Mentre elenchiamo una ad una queste dolorose atrocità è per noi naturale accostare le angosce di tragedie apparentemente distanti: in mare si muore come nelle terapie intensive.

Si affoga senza aria, in solitudine, privati di ogni conforto. Si muore annaspando cercando una mano tesa ed anelando ancora un po' di fiato nei polmoni. Si muore senza nome e senza un funerale.

Inevitabilmente accostiamo queste drammatiche, epocali, tragedie in questi giorni scanditi da macabri conteggi di contagi e decessi lacerati dall'urlo incessante delle ambulanze.

L'empatia a volte è una condanna.

Questi amici, che normalmente accolgono persone sopravvissute ai naufragi, danno sepoltura ai corpi senza vita e senza nome restituiti dal mare o presentano esposti contro chi ne ordina o permette l’omissione di soccorso, si scoprono, come me, turbati dalla somiglianza di questi mali differenti (virale il primo meramente contagioso il secondo).

In un periodo in cui ci si affaccia continuamente dai balconi, per intonare canti di stonata speranza o semplicemente respirare con tutti i sensi la festa della natura che si è rimpossessata di una primavera finalmente meno invasa da molesti bipedi, verrebbe quasi da formulare a fior di labbra una laica promessa: abbiamo capito, chiediamo scusa, non lo faremo più.

Non tollereremo più che a nessuno sia inflitta, in terra o in mare, questa sofferenza. Pretenderemo salvezza per tutti quelli che si possono salvare.

E invece, proprio mentre nei nostri ospedali e nelle nostre case private o di cura, si muore come affogando, si condannano alla stessa fine ma in mare aperto, i profughi in fuga da guerre e persecuzioni. Lo si fa con un indecente decreto che in nome della “salute” chiude i porti alle navi di salvataggio delle Ong straniere dimenticando che la salute, come tutti i diritti fondamentali è indivisibile, vale per tutti o per nessuno, e che vedere annegare qualche decina di profughi e condannarne altri alla deportazione nei lager libici non ci fa stare meglio e certamente non ci renderà più sani. E anzi, verosimilmente, porta pure male.

Mentre scrivo stiamo per aprire nuovamente le nostre finestre, non potendo occupare le piazze, per intonare i nostri canti di liberazione, come atto di memoria e di fede, per rendere grazie a chi ha saputo resistere alle lusinghe securitarie del regime e ha coraggiosamente disobbedito a divise e leggi che in nome della salvezza della patria calpestavano diritti per loro natura inviolabili e sopprimevano libertà sacre e irrinunciabili.

Spero che in questo 25 Aprile la nostra “bella ciao” possa risuonare potente come una preghiera, rivoluzionaria come un grazie, sincera come un impegno e severa come una promessa.

Perché nessuno potendo essere salvato, in mare o in terra, debba più annegare.

La Repubblica di Genova 26 aprile 2020

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