"La drammatica situazione di violenza vissuta in Libia legittima la protezione umanitaria"

Tribunale di Genova, ord. del 6 dicembre 2017

 

"La situazione del ricorrente, così come ricostruita, permette, tuttavia, il riconoscimento del diritto alla protezione per motivi umanitari.
Va premesso che l’art. 5 comma 6 d.lgs. 286/98 non definisce i gravi motivi di carattere umanitario che possono impedire il rientro del richiedente nel suo paese di origine e che gli stessi vengono generalmente ricondotti a significativi fattori soggettivi di vulnerabilità, quali. particolari motivi di salute, ragioni di età, traumi subiti tali da lasciare traccia nella personalità del richiedente (sul punto di veda oltre § 4.1) ovvero a fattori oggettivi di vulnerabilità, che possono essere legati a guerre civili, a rivolgimenti violenti di regime, a conflitti interni, a catastrofi naturali, a rischi di tortura o di trattamenti degradanti ed altre gravi e reiterate violazioni dei diritti umani nel Paese di origine.


3.1 Sui traumi vissuti dai richiedenti asilo nei paesi di transito. Ai traumi subiti dai richiedenti asilo dopo l’uscita dal proprio Paese, la Commissione territoriale non sembra attribuire alcuna rilevanza; tale orientamento appare tuttavia in contrasto con l’art.. 8 comma 3 del d.lgs. n. 25/2008, che dispone che la domanda di protezione internazionale debba essere esaminata alla luce di informazioni precise ed aggiornate sul Paese di origine dei richiedenti asilo “e, ove occorra, dei Paesi in cui questi sono transitati”.
Tale norma, se si vuole attribuirle un significato normativo (e non dare invece alla stessa un’interpretazione sostanzialmente abrogante), implica a parere di questo Collegio che dovrà – tra l’altro - tenersi conto dei traumi subiti dal richiedente non solo nel Paese di origine, ma anche in quelli di transito e più in generale nel corso del viaggio dal proprio Paese all’Italia, quando questi abbiano lasciato un segno nel richiedente, quanto meno ai fini di una eventuale protezione umanitaria.
D’altra parte, lo stesso autorevole documento “La tutela dei richiedenti asilo – Manuale giuridico per l’operatore”1 - sebbene a proposito dei presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato ed in particolare del concetto di persecuzione – a pag. 10 osserva che (sottolineatura dello scrivente, N.d.R.) “Nei casi in cui le persecuzioni sofferte nel passato siano di eccezionale gravità, anche laddove una futura reiterazione delle stesse appaia oggettivamente irrealistica o inverosimile, la persona che ne sia stata colpita può essere riconosciuta rifugiata (cfr. nell’art. 1-C, n. 5 e n. 6 della Convenzione di Ginevra l’indicazione di “ragioni imperative derivanti da precedenti persecuzioni”, sebbene si riferisca al diverso ambito delle cause di cessazione). Secondo l’UNHCR (UNHCR Handbook, par. 136) si tratta di un generale principio di natura umanitaria, in base al quale non si può rimpatriare un individuo che e stato colpito, in prima persona o indirettamente attraverso i suoi familiari, da atroci forme di persecuzione di cui stia ancora soffrendo il trauma”.
Osserva in proposito questo Tribunale che se è condivisibile il principio sopra espresso quando la fonte di un trauma sia una persecuzione subita dal richiedente o da suoi familiari (al fine della valutazione dei presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato) non potrà pervenirsi a diverse conclusioni quando diversa sia la fonte del trauma, seppur a diversi fini (ovvero ai fini dell’eventuale riconoscimento di una forma di protezione minore).
3.2 Ciò posto, nel caso in esame, occorre tenere conto:
- delle drammatiche vicende vissute in Libia. In questa sede, xxx racconta di essere subito stato “preso”, insieme a molti altri stranieri, da un uomo che li teneva prigionieri, li veniva a prendere al mattino, li portava a lavorare e li riportava a casa alla sera; per il resto era proibito uscire. Il proprietario li trattava malissimo, non c’era il bagno e gli dava solo un po’ da mangiare alla sera. In pratica era come una prigione. Sentirono anche che questi uccideva le persone, alla sera veniva a prendere alcuni di loro, li portava via e poi non li riportava indietro. Decise a quel punto di fuggire, una sera che era stata lasciata la finestra aperta, controllò che tutti dormissero e scappò. Incontrò un connazionale che si offrì di aiutarlo, si recarono insieme in un posto dove c’era una barca in partenza. Lui a quel punto non avrebbe voluto salire, ma c’erano degli arabi armati che costringevano tutti a salire con la forza. Sparavano anche sul gruppo per costringere le persone a salire e nella circostanza il suo connazionale fu colpito da un proiettile e morì. In base a tale racconto il richiedente, una volta in Libia, è in pratica stato prima ridotto in schiavitù e poi costretto con le armi puntate ad imbarcarsi verso l’Italia. E la narrazione è pienamente riscontrata dalla fonti consultate.
A questo proposito, si osserva che sussiste in tale Paese una situazione di “violenza indiscriminata” derivante da conflitto armato, dato che le rivolte insorte in Libia, dopo la caduta del regime del colonello Gheddafi, si sono subito trasformate in un conflitto armato, tuttora perdurante, che vede scontrarsi le milizie, i molteplici gruppi armati di matrice islamica presenti nel Paese e le bande criminali che operano soprattutto nelle zone di transito2.
Quanto al trattamento violento subito dagli stranieri in transito dalla Libia, in particolare provenienti dall’Africa Subsahariana, la notizia - già nota3 – trova un’ulteriore e recentissima conferma nella dichiarazioni rese dal Procuratore della Corte Penale Internazionale all'ONU dell’8/5/2017, secondo cui la Corte penale ha l’intenzione di aprire un’inchiesta ufficiale sulle violenze subite dai migranti in Libia, in quanto sono pervenute da fonti diverse testimonianze di migranti sfruttati, schiavizzati, picchiati o molestati sessualmente.
- Del buon percorso di integrazione nel tessuto sociale e culturale italiano. È in atti copia di domanda di partecipazione al corso di alfabetizzazione presso il C.P.I.A. Centro Ponente per l’A.A. accademico 2016/2017 (il richiedente dichiara di averlo frequentato ma di non avere il relativo attestato in quanto data la distanza da xxxx non riesce a frequentare tutti i giorni) e attestato di conoscenza della lingua italiana livello A1 della Scuola di lingua e cultura italiana della Comunità di Sant’Egidio. Il richiedente riferisce inoltre di avere svolto attività di volontariato per 2 mesi, facendo pulizie per le strade di xxx e di essere in attesa di un lavoro. (...) 

Un percorso che verrebbe vanificato in caso di rientro forzato in Ghana.
Le circostanze di cui sopra, globalmente considerate, e valutate unitamente all’assenza di motivi di pericolosità sociale del richiedente sulla base degli atti (nessun precedente penale, né di polizia, né carichi pendenti nel circondario di Genova), concretizzano una situazione che dà diritto ad ottenere il permesso di soggiorno per motivi umanitari ai sensi dell’art. 5 comma 6 d.lgs. 286/98. Gli atti vengono a tal fine trasmessi al Questore competente per territorio.

 

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