"I traumi subiti dal richiedente asilo dopo l'uscita dal proprio Paese e, in particolare, la situazione di violenza indiscriminata in Libia, alla quale la CT non ha attribuito alcuna rilevanza, costituisce, invece, ai sensi dell'art. 8 comma 3 D.Lvo 25/20

Tribunale di Genova, ord. 14 marzo 2018

"La situazione del ricorrente, così come ricostruita, permette, tuttavia, il riconoscimento del diritto alla protezione per motivi umanitari.


Va premesso che l’art. 5 comma 6 d.lgs. 286/98 non definisce i motivi di carattere umanitario che possono impedire il rientro del richiedente nel suo paese di origine e che gli stessi vengono generalmente ricondotti a significativi fattori soggettivi di vulnerabilità, quali particolari motivi di salute, ragioni di età, traumi subiti tali da lasciare traccia nella personalità del richiedente; ovvero a fattori oggettivi di vulnerabilità, che possono essere legati a guerre civili, a rivolgimenti violenti di regime, a conflitti interni, a catastrofi naturali, a rischi di tortura o di trattamenti degradanti ed altre gravi e reiterate violazioni dei diritti umani nel Paese di origine.
Ai traumi subiti dal richiedente asilo dopo l’uscita dal proprio Paese, la Commissione territoriale non sembra attribuire alcuna rilevanza. Tale orientamento appare tuttavia in contrasto con l’art. 8/3° comma d.lgs. n. 25/2008, che dispone che la domanda di protezione internazionale debba essere esaminata alla luce di informazioni precise ed aggiornate sul Paese di origine dei richiedenti asilo “e, ove occorra, dei Paesi in cui questi sono transitati”. Tale norma, se si vuole attribuirle un significato normativo (e non dare invece alla stessa un’interpretazione sostanzialmente abrogante), implica a parere di questo Collegio che dovrà – tra l’altro - tenersi conto dei traumi subiti dal richiedente non solo nel Paese di origine, ma anche in quelli di transito e più in generale nel corso del viaggio dal proprio Paese all’Italia, quando questi abbiano lasciato un segno nel richiedente, quanto meno ai fini di una eventuale protezione umanitaria. D’altra parte, lo stesso autorevole documento “La tutela dei richiedenti asilo – Manuale giuridico per l’operatore” - sebbene a proposito dei presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato ed in particolare del concetto di persecuzione – a pag. 10 osserva che “…Nei casi in cui le persecuzioni sofferte nel passato siano di eccezionale gravità, anche laddove una futura reiterazione delle stesse appaia oggettivamente irrealistica o inverosimile, la persona che ne sia stata colpita può essere riconosciuta rifugiata (cfr. nell’art. 1-C, n. 5 e n. 6 della Convenzione di Ginevra l’indicazione di “ragioni imperative derivanti da precedenti persecuzioni”, sebbene si riferisca al diverso ambito delle cause di cessazione). Secondo l’UNHCR (UNHCR Handbook, par. 136) si tratta di un generale principio di natura umanitaria, in base al quale non si può rimpatriare un individuo che e stato colpito, in prima persona o indirettamente attraverso i suoi familiari, da atroci forme di persecuzione di cui stia ancora soffrendo il trauma…” (si tratta di un manuale giuridico redatto a più mani, dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) e dall’Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione (ASGI), con il coordinamento del Servizio centrale del Sistema di protezione per i richiedenti asilo e rifugiati – SPRAR - e la supervisione del Dipartimento per le Libertà civili e l’Immigrazione del Ministero dell’Interno. su https://www.unhcr.it/wp- content/uploads/2016/01/1UNHCR_manuale_operatore.pdf). Osserva in proposito questo Tribunale che se è condivisibile il principio sopra espresso quando la fonte di un trauma sia una persecuzione subita dal richiedente o da suoi familiari (al fine della valutazione dei presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato) non potrà pervenirsi a diverse conclusioni quando diversa sia la fonte del trauma, seppur a diversi fini (ovvero ai fini dell’eventuale riconoscimento di una forma di protezione minore).
Ciò posto, nel caso in esame, occorre tenere conto delle indubbiamente drammatiche vicende vissute in Libia dal ricorrente il quale, in questa sede, ha raccontato sinteticamente di avere lavorato per dei libici venendo pagato solo lo stretto necessario per mangiare ed avendo paura di morire nel corso dei frequenti attacchi e delle numerose battaglie fino ad essere stato costretto insieme ad altri ad imbarcarsi per ragioni rimaste ignote.
A questo proposito, si osserva che sussiste in tale Paese una situazione di “violenza indiscriminata” derivante da conflitto armato, dato che le rivolte insorte in Libia, dopo la caduta del regime del colonello Gheddafi, si sono subito trasformate in un conflitto armato, tuttora perdurante, che vede scontrarsi le milizie, i molteplici gruppi armati di matrice islamica presenti nel Paese e le bande criminali che operano soprattutto nelle zone di transito. Quanto al trattamento violento subito dagli stranieri in transito dalla Libia, in particolare provenienti dall’Africa Subsahariana, la notizia - già nota – trova un’ulteriore e recentissima conferma nella dichiarazioni rese dal Procuratore della Corte Penale Internazionale all'ONU dell’8/5/2017, secondo cui la Corte penale ha l’intenzione di aprire un’inchiesta ufficiale sulle violenze subite dai migranti in Libia, in quanto sono pervenute da fonti diverse testimonianze di migranti sfruttati, schiavizzati, picchiati o molestati sessualmente (cfr il Rapporto 2016/2017 di Amnesty International ove fra l’altro si legge : “Sia le forze affiliate ai due governi rivali sia le milizie e altri gruppi armati hanno commesso nell’impunità gravi violazioni del diritto internazionale umanitario e delle norme internazionali sui diritti umani. Tutte le parti in conflitto hanno compiuto attacchi indiscriminati e colpito deliberatamente i civili, costringendo migliaia di persone allo sfollamento interno e provocando una crisi umanitaria. Migliaia di detenuti sono rimasti reclusi senza processo, in assenza di un sistema giudiziario funzionante e in un contesto in cui la tortura e altri maltrattamenti erano diffusi. I gruppi armati, compreso l’autoproclamato Stato islamico (Islamic State – Is), hanno rapito, detenuto e ucciso civili e hanno gravemente limitato i diritti alla libertà d’espressione e di riunione” - https://www.amnesty.it/rapporti-annuali/rapporto-annuale-2016-2017/medio-oriente-africa-del-nord/libia/; Si veda ancora il citato Rapporto 2016/2017 di Amnesty International: “Rifugiati e migranti sono stati vittime di gravi abusi da parte di gruppi armati, contrabbandieri e trafficanti di esseri umani, oltre che delle guardie dei centri di detenzione amministrati dalle autorità governative. (…) La legislazione libica continuava a considerare un reato l’ingresso, l’abbandono o la permanenza irregolare nel paese da parte di cittadini stranieri. Molti migranti irregolari, o sospettati di esserlo, e richiedenti asilo sono stati prelevati ai posti di blocco e nel corso d’irruzioni all’interno di abitazioni o sono stati denunciati alle autorità dai loro datori di lavoro. Migliaia sono rimasti trattenuti presso le strutture del dipartimento per la lotta alla migrazione irregolare (Department for Combating Irregular Migration – Dcim), in stato di detenzione indefinita in attesa dell’espulsione. Sebbene queste strutture dipendessero ufficialmente dal ministero dell’Interno, erano spesso gestite dai gruppi armati che operavano al di fuori dell’effettivo controllo del Gna. In queste strutture erano tenuti in condizioni squallide e sottoposti a tortura e altri maltrattamenti da parte delle guardie, compresi pestaggi, sparatorie, sfruttamento e violenza sessuale - https://www.icc-cpi.int/Pages/item.aspx?name=170509-otp-stat-lib)."

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